
Un orologio segna il tempo. Un uomo, seduto su una sedia, ci racconta la sua storia di profugo di guerra, rifugiato in Belgio. Gli sono state amputate entrambe le braccia ed è cieco, a causa dell’esplosione di una granata vicino a Goražde, in Bosnia. Ora che la guerra è finita, aspetta l’arrivo della sua famiglia, che non vede da due anni.
«”Sono vivo”, ci dice l’uomo con un filo di voce, mentre la sua esistenza scorre in bianco e nero e il suo corpo, brutalmente mutilato, rimane confinato su una seggiola. Impossibile bersi un caffè o fare un tiro di sigaretta, senza l’aiuto di chi lo assiste in ogni piccolo gesto quotidiano. Gravato da un senso di impotenza e di inutilità, l’uomo ci racconta di come la guerra lo ha portato sino a lì e di come i ricordi degli affetti più cari gli abbiano permesso di sopravvivere. Il ticchettio dell’orologio segna il tempo di un’attesa che sembra prolungarsi all’infinito, dove un secondo è un’ora e un’ora dura una settimana, fino all’ultimo, emozionante, ricongiungimento familiare. Con il commovente abbraccio finale le immagini prendono lentamente colore: è il segnale del risveglio, l’inizio di una seconda vita, che tuttavia non potrà mai più essere come quella di prima. Le parole che chiudono questo breve documentario sono infatti lì per ricordarcelo: “L’alba è arrivata e con lei la luce diffusa di una pace annunciata. Ma la Storia ha mutilato i corpi e fissato i ricordi. In essi, la guerra resterà viva. Le ferite dell’anima sono immortali”.»