

(…) Forse noi siamo qui per dire: casa ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra, al più: colonna, torre…
Ma per dire, comprendilo bene oh, per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse, nell’intimo, mai intendevano d’essere.
Rainer Maria Rilke 1Ogni colore, ogni vita nasce dove lo sguardo si ferma.
Questo mondo non è che la cima d’un invisibile incendio.
Philippe Jaccottet 2
Sono passati diciotto anni dall’omaggio che Bergamo Film Meeting ha dedicato al regista Andrej Tarkovskij, di cui furono presentati, nel programma del 2004, i sei film realizzati in Russia. Una proposta che conquistò il pubblico del festival, con la sala che traboccava di gente, gli spettatori catturati da un cinema non facile, ma che sapeva penetrare, con la forza dell’incanto e dell’intelligenza, nella mente e nel cuore delle persone presenti.
Grazie al sostegno della Regione Lombardia, che a quel tempo contribuiva in maniera cospicua alla realizzazione di Bergamo Film Meeting, il pacchetto dei film realizzati in patria ha potuto circolare su tutto il territorio nazionale, permettendo a tantissima gente di conoscere e apprezzare una delle più significative esperienze artistiche del Novecento.
Per l’occasione, fu pubblicato un volume che, nonostante l’elevata tiratura, si esaurì nel corso di pochi anni, a testimonianza del grande interesse che Tarkovskij continuava a suscitare anche dopo la sua prematura scomparsa, avvenuta il 29 dicembre 1986 a Parigi, all’età di 54 anni.
Grazie a un contributo ad hoc della Fondazione della Comunità Bergamasca, l’associazione Bergamo Film Meeting Onlus può iniziare la pubblicazione online, nel formato e-book, di alcune monografie, già uscite nel formato cartaceo, scelte tra quelle esaurite e tra quelle che sono state richieste con maggiore frequenza da appassionati e ricercatori, sia relative a edizioni passate del festival che a quelle più recenti.
L’idea di proporre Tarkovskij come uno degli autori apripista di questa nuova avventura ci è sembrata particolarmente adatta per porre le fondamenta di quella che può essere chiamata a tutti gli effetti una nuova collana editoriale, e in linea con la filosofia della nostra associazione, che ha tra i suoi scopi principali la rilettura del cinema del passato, fatta però con uno sguardo coniugato al presente, aperto a nuove interpretazioni e capace di cogliere, nei testi filmici di registi e periodi storici, segnali, linguaggi e intuizioni che avrebbero prefigurato il cinema degli anni a venire e che, oggi, sono ancora parte viva della nostra cultura.
Andrej Tarkovskij, sia per le caratteristiche della sua storia personale, sia per l’opera che ci ha lasciato, che comprende anche una vasta produzione saggistica e letteraria, è una testimonianza imprescindibile per chi vuole “bagnare i panni” nella smisurata eredità culturale del continente europeo, eredità che qui non si intende come un patrimonio consolidato, ma piuttosto come un organismo in piena attività, dotato di un sistema radicale complesso e in parte ancora inesplorato e di una ramificazione nella quale scorrono linfe arcaiche e avvengono nuovi, a volte imprevedibili, metabolismi.
Nell’ambito della comunicazione audiovisiva molte cose sono cambiate in questi ultimi anni: il digitale, ad esempio, non è stato e non è soltanto una rivoluzione tecnologica. L’immagine ha cambiato “consistenza”, ha perso in fisicità ma produce campi di luce che rielaborano gli spessori e le prospettive, una colorazione più plastica: diversa è la relazione con il visibile, così come diversa è la visione dello spettatore, diverso il dialogo con il reale e la sua traduzione nel racconto per immagini. Le differenze, rispetto alla pellicola, sono anche di sostanza: una nuova pastosità, una profondità di campo più contratta, una bordatura più precisa, una lavorazione degli effetti che, in pratica, sta diventando una produzione parallela, un’elaborazione del suono che stravolge e potenzia la finzione stessa. Forse è legittimo porsi la domanda: cosa avrebbe fatto Tarkovskij utilizzando le apparecchiature oggi disponibili, quali esplorazioni avrebbe intrapreso nei meandri dell’esistente? Alla luce di tanti e decisivi cambiamenti, diventa ancora più entusiasmante interrogarsi sugli strumenti con cui il cinema ha cercato e cerca tuttora di interpretare i modi del soggetto di stare nel mondo e di raccontarlo, di produrre a sua volta linguaggio.
Andrej Tarkovskij ha operato in un periodo travagliato della Russia e dell’Est europeo: non va dimenticato, infatti, che il suo ultimo film è del 1986, quando mancano solo tre anni alla caduta del muro di Berlino ma la temperatura sociale è già molto alta; il regista è già uscito dal suo paese, dove ha lasciato la famiglia e dove non è mai stato particolarmente amato. È anche il periodo in cui nel cinema si spengono gli ultimi fuochi delle diverse nouvelle vague, che avevano avuto inizio in Inghilterra nella metà degli anni ‘50 e che, altrove fino alla fine degli anni ’70, avevano agitato il continente europeo. I movimenti avevano da tempo vissuto, in alcuni registi, l’abbandono degli iniziali moti antisistema: erano autori che avevano trovato una loro matura e solida cifra stilistica prendendo strade diverse e organizzando rappresentazioni assoluta- mente personali e non più riferibili a contesti più ampi. Alcuni avevano già lasciato prematuramente questo mondo: Fassbinder muore nel 1982, Truffaut nel 1984, Antonioni gira nel 1982 il suo ultimo film “vero”, poco prima di essere colpito da una grave malattia. Godard, l’unico che rimane fermo su una posizione di scontroso ma vivace, provocatorio e ingegnoso rifiuto, prosegue in solitaria la sua investigazione negli “abissi” teoretici dell’immagine, marxianamente aggrappato alla politica e al cinema assunti come armi di lotta e di scardinamento degli apparati ideologici; Bresson chiude nel 1983 la sua esperienza di regista introverso e irreprensibile, fedele a una scrittura tanto intransigente quanto eccessivamente umana e atrocemente disvelante e a una teologia del silenzio e del baratro.
Tarkovskij, un nostalgico e tormentato re in esilio, si incammina dantescamente nella selva delle grandi domande di significato, dell’interiorità dilaniata e senza pace, della conoscenza che ha in sé, come ragione d’essere, il dolore e l’angoscia. Muovendosi in queste “zone” dai contorni sempre sfuggenti, produce un’esperienza cinematografica unica, assoluta se misurata alla forza dell’interrogazione e dell’invasione figurativa, che non intende sostituirsi alla realtà, ma la trascina entro un campo gravitazionale di segni, visioni, suoni che, nella trasfigurazione, ne intercettano le vibrazioni e le frequenze più profonde, ma altrettanto reali delle evidenze fenomeniche. Come in Solaris, dove la materializzazione dei ricordi non si manifesta nella proiezione di fantasmi, di forme vane, ma si traduce nell’entrata in scena di corpi vivi, che si dispongono al tatto e all’abbraccio, all’affetto e al desiderio d’amore.
È possibile che il cinema possa rinominare la realtà? Forse, è a una simile domanda che vorrebbe rispondere il lavoro del grande regista, con la tensione di uno sguardo che, come per la ragazzina muta di Stalker, affronta le cose per turbarne l’inerzia e dare ad esse la facoltà di produrre nuove trasparenze, nuovi modi di trattenersi nello spazio. Certo, al centro della scena rimane l’uomo, con la sua ostinazione, la sua violenza, la sua sete di conoscenza, il suo amore della bellezza, la sua voglia di possesso. Ma, di fronte, c’è qualcosa che ha vita propria, che può rivelare universi interi, qualora ci si avvicini per interrogarlo con rispetto, con umiltà, con la consapevolezza che l’essere pensante è parte di un tutto e condivide con altri esseri viventi strutture organiche, percorsi evolutivi, impulsi primordiali. Anche se, va detto, l’uomo tende a rimanere chiuso in se stesso, incapace di comprendere, di leggere i messaggi di altre creature. Egli sa che i suoi linguaggi sono potenti e che gli permettono di entrare nei meccanismi generativi delle cose, consentendogli di sottomettere la natura ai propri fini, di alterarne equilibri e processi; questi poteri, tuttavia, sono causa di felicità solo per pochi, mentre l’offesa alla terra cresce di pari passo con l’alterigia, la supponenza, l’idolatria della propria superiorità. Tarkovskij non sta al gioco dell’uomo che prima dice di essere figlio di Dio e poi crede di essere a sua volta Dio, sa che si può guardare la realtà in modo diverso, che l’occhio può fare da lente alla coscienza e intercettare la voce delle cose. Può, in altre parole, e per mezzo del cinematografo, dire il mondo in modo diverso: con l’emozione, il racconto, il tormento, ma cercando di tradurre quel respiro profondo che è nella materia e che per l’esploratore di segni è la ricerca di un’intima affinità, del senso dell’origine, delle radici che, ancora, alimentano l’appartenenza e fanno intravedere una convivenza diversa. Così la terra, l’aria, l’acqua, il fuoco, come all’inizio della ricerca filosofica dell’umano pensiero, seguitano a formare il reticolo dell’essenza materiale, mentre la luce, i riflessi, i suoni, i rumori, le ombre fanno irrompere i sogni, le inquietudini, gli incubi, le nostalgie, il timore di chi non vorrebbe che si perdessero i legami con la madre comune. Il cinema, come lo stalker, può fissare, scrutare, contemplare ciò che lo sguardo della quotidianità e della sufficienza trascura, elide per pigrizia e per convenienza, sovente per viltà.
Bisogna spogliarsi delle sicurezze, dei pregiudizi, della volgarità che si annida nella convinzione di possedere la verità. La rivelazione sta, invece, nei “doni” che la natura riserva a chi vi si accosta con umiltà, a chi vi si avvicina per raccogliere immagini, vibrazioni, paesaggi e farne oggetti di un “discorso amoroso”. È come se Tarkovskij chiedesse aiuto all’esistente per narrare le difficoltà del vivere, le angosce profonde che affiorano dal silenzio del vuoto; l’invocazione unita al desiderio di trovare nell’altro da sé i frammenti visivi che, ricomposti e portati a nuova vita, sono chiamati a rappresentare i “nuovi mondi” della poesia e del mito.
Inevitabile è l’intersezione, nel cammino creativo, con la memoria e la storia, individuali e collettive, perché in esse si dispongono e si agitano le paure, le meditazioni, i conflitti che bruciano gli occhi e feriscono la coscienza degli attori del tempo presente. L’Andrej Rublev affonda nella terra e nel fango la meravigliosa incoscienza della creazione artistica, dopo che il bianco si era imposto come specchio opaco e muto, riluttante a ricevere i colori della speranza e della rinascita. Il pittore di icone, che ha visto il nero del sangue e dato la morte, diventa il pellegrino del silenzio, del giudizio muto, del gesto impedito. Tarkovskij lo conduce nella geografia dell’essere, lungo i sentieri della disperazione e del sopruso, nell’officina dell’azzardo, offrendo a lui, a se stesso, a noi spettatori, gli elementi e le visioni di un’arte a venire. Bisogna uscire dal sé ripiegato sul rifiuto e sulla rinuncia, per ritrovare il vocabolario della vita e del rischio, il disegno da riempire per parlare il linguaggio dell’universalità, le immagini che possono restituire l’emozione e la libertà. Il regista de L’infanzia di Ivan sa che il cinema lavora sulla contiguità e sull’analogia, ma può agire in profondità, dentro quell’universo simbolico che non deprime il reale, come si diceva, ma lo comprende, fabbricando il sigillo con l’azione dello sguardo, nella durata che genera l’estensione, nella scelta che delimita la visione e insieme la trasforma. Per questa ragione, più sopra, si parlava del potere della scrittura cinematografica di aprirsi a nuovi linguaggi, capaci di mutare la relazione tra la soggettività e l’oggettività, tra il punto di vista e la disponibilità del visibile, stante un’interrogazione continua e mai esaustiva dell’abitare consapevolmente la terra, nella dipendenza, certamente, ma anche nel distacco dalla stessa per tramite della fantasia, dell’immaginazione, della memoria, della storia vissuta e del tempo futuro.
Alla luce di ciò, forse non è azzardato dire che il film di Tarkovskij che più appartiene alla sua eccezionalità d’autore è Lo specchio, un’opera che sfugge a qualsiasi accerchia- mento interpretativo; una sintesi poetica che fa della fragilità la sua forza, dell’evocazione la sua ambiguità, dell’epifania la sua promessa di felicità. In questo film le situazioni materiali, i richiami del passato, i capogiri dell’inconscio, diventano brani per una rappresentazione che li dispone e li esalta entro un universo compositivo, che richiama la sontuosità realistica dell’affresco e che suggerisce una religiosità immersa nelle passioni, negli affetti, nelle esitazioni; ciò che è parte di un corpo ferito dalle pressioni del ricordo, dalle insistenze del desiderio e dal rimpianto degli atti mancati. In questo film, come già in Stalker e poi in Nostalghia, il cinema del regista russo può leggersi come un laboratorio di oggetti semantici, un insieme di sequenze che assorbono “porzioni” di ciò che è, per portare alla luce la confessione e il “mistero” dell’interiorità.
La Zona, dove si inoltra la guida per osare la tragicità della soglia, e la vasca vuota d’ac- qua dove il protagonista accarezza l’assoluto con la lievità di una fiammella, sono luoghi veri, concreti, spazi che ognuno può pensare di attraversare, ma, per lo spasimo del movimento, per la richiesta di un raccoglimento che pretende per sé tutta l’energia possibile, quei luoghi diventano altro, suggeriscono enigmi, producono ambiguità; attraggono l’apprensione del soggetto agente e lo costringono, nell’unione febbrile tra corpo e mente, alla sfida della solitudine estrema, troppo umana e straziante, vuota del messaggio divino.
La scrittura prende vita nella corporeità, nella prossimità alle cose e il mondo sensibile si riflette nel segno fino a divenirne parte, sangue del suo sangue. C’è sempre una forte empatia nella visione di Tarkovskij, un patimento che si aggrappa a ciò che sta fuori: un’invocazione di senso, al fine di esprimere ciò che, se lasciato agli eccessi del delirio, finirebbe nei vicoli ciechi dell’alienazione narcisista. Nel già citato Solaris il fantasma della donna amata, nella sua dolcezza e nella cosciente vanità della resurrezione, ha la concretezza della vita; l’autenticità della storia d’amore, forse una delle più belle mai viste al cinema, scioglie il passato in un presente di malinconica ma struggente bellezza. Sono il mondo delle cose e l’irruzione dell’altro a fornire la materia ai sogni: gli scenari dell’infanzia, le zone dei pellegrinaggi e degli esili, i prati mossi dall’aria, i fuochi del dramma e quelli dell’intimità famigliare, i rivoli di neve, il magico invito del fiume, la fermezza degli alberi, il vincolo della terra, la plasticità dell’acqua, l’improvviso levarsi del vento, la penombra della casa. L’io apprende di sé dalla natura e dalla storia, dall’arte e dalle vite che lo hanno accompagnato: nel bosco si può toccare la magia della luce, in un vecchio filmato amatoriale si possono leggere la fatica e la tragedia di un popolo, in un quadro di Brueghel si può intravedere l’universale, nel volto della madre si può spiare l’eternità. Nella sofferenza della lontananza e nella necessità dell’angoscia, il soggetto lavora l’argilla dell’essere. Tarkovskij, nel e con il suo cinema, ci suggerisce che tra le cose ci sono l’incanto e la rivelazione, con le cose si racconta la transitorietà e si dà forma all’utopia.
I saggi che erano nella pubblicazione cartacea sono qui riproposti con piccole correzioni; gli autori non hanno ritenuto di apportare modifiche. La passione messa a suo tempo nella scrittura, l’attenzione per gli argomenti filosofici e poetici del regista di Sacrificio, il coinvolgimento in un cinema di rara potenza visiva, probabilmente hanno fatto sì che intensi fossero, già allora, l’approfondimento e la riflessione, tanto da rendere superfluo, per questa nuova edizione, qualsiasi rimaneggiamento significativo.
1 Rainer Maria Rilke, Elegie Duinesi, Einaudi, Torino, 1978, p. 57
2 Philippe Jaccottet, Arie, Marcos y Marcos, Milano 2000, p. 47
Il volume
Andrej Tarkovskij
a cura di Angelo Signorelli
Omaggio a un Grande del cinema di tutti i tempi. L’infanzia di Ivan, Andrej Rublev, Solaris, Lo specchio, Stalker – in occasione della ristampa delle copie a cura della Mosfilm e della Fondazione Andrej Tarkovskij – vengono accuratamente analizzati e illustrati in questo volume, con l’aggiunta di scritti dello stesso Tarkovskij e di una lettera di Jean-Paul Sartre.
Da sempre in esilio di Tullio Masoni, Paolo Vecchi
Una manciata di bacche e qualche ago di pino (Il rullo compressore e il violino e L’infanzia di Ivan) di Andrea Frambrosi
Rifrazioni dell’icona. Per una lettura di Andrej Rublëv di Francesco Cattaneo
La vita è un soffio, non ti voltare (Solaris) di Marco Dell’Oro
Manifestazioni di realtà (Lo specchio) di Adriano Piccardi
Nel labirinto del tempo (Stalker) di Angelo Signorelli
Antologia tarkovskijana
Filmografia
BFM 2004 — Omaggio Andrej Tarkovskij
Andrej Rublëv
Regia di Andrej Tarkovskij
URSS / 1966 / 185′
Ivanovo detstvo
Titolo italiano: L’infanzia di Ivan
Regia di Andrej Tarkovskij
URSS / 1962 / 95′
Katok i skripka
Titolo italiano: Il rullo compressore e il violino (t.l.)
Regia di Andrej Tarkovskij
URSS / 1960 / 55′
Solaris
Regia di Andrej Tarkovskij
URSS / 1972 / 165’
Stalker
Regia di Andrej Tarkovskij
URSS / 1979 / 161′
Zerkalo
Titolo italiano: Lo specchio
Regia di Andrej Tarkovskij
URSS / 1974 / 105′